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Il re del mare

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PARTE SECONDA. Il figlio di Suyodhana

1. Una spedizione notturna

– Signor Yanez, vedo un lume brillare laggiù, entro quell’apertura.



– L’ho veduto, Sambigliong.



– Che vi sia un praho ancorato nella rada?



– Io credo invece che si tratti di una scialuppa a vapore, di quelli che ha condotto qui Tremal-Naik e Darma.



– Che si vegli all’entrata della rada?



– È possibile, amico, – rispose tranquillamente il portoghese, gettando via la sigaretta che stava fumando.



– Potremo passare inosservati?



– Chi vuoi che si aspetti un colpo di mano da parte nostra? Redjang è troppo lontana da Labuan e poi scommetterei che nemmeno a Sarawak sanno che noi siamo già giunti. Chissà se la nostra dichiarazione di guerra al leopardo inglese e al nipote di James Brooke è giunta qui. E poi non siamo noi vestiti da cipai indostani? Forse che le truppe del rajah portano dei vestiti diversi dai nostri?



– Tuttavia, signor Yanez, preferirei che quella scialuppa o quel praho non si trovasse qui.



– Devono dormire della grossa a bordo, mio caro Sambigliong, e noi li sorprenderemo.



– Come! Assaliremo quei marinai? – chiese Sambigliong.



– Non amo lasciarmi alle spalle dei nemici che potrebbero molestarci nella ritirata. Ci sbarazzeremo il terreno senza che la Perla di Labuan venga in nostro aiuto e avvicinandosi alla costa urti contro qualche scogliera. Suppongo che non saranno in molti su quella scialuppa o praho che sia e noi siamo lesti di mano. Non fate uso delle armi da fuoco: solo i parangs ed i kriss devono lavorare. Mi avete capito?



– Sì, signor Yanez, – risposero parecchie voci.



– Avanti adunque e silenzio.



Questa conversazione avveniva su una grossa scialuppa, manovrata da sei paia di remi e montata da quattordici persone che indossavano il pittoresco costume dei cipai sarawakini: giacca di panno rosso, calzoni bianchi di tela, turbantino in testa pure bianco e scarpe colla punta rialzata.



Dodici avevano la pelle di colore molto oscuro, che li faceva rassomigliare a malesi o per lo meno a dayaki: e gli altri due invece erano di razza caucasica ed indossavano la divisa di ufficiali.



Erano tutti uomini robusti, alti e muscolosi e tenevano presso i loro rispettivi banchi delle lunghe carabine di fabbrica indiana, delle pesanti sciabole colla lama molto larga e dei pugnali a lama serpeggiante, i famosi, e terribili kriss malesi.



La scialuppa, che manovrava silenziosamente e velocemente, sotto la direzione di Yanez che stava a poppa, alla barra del timone, muoveva verso una profonda baia che s’apriva sulla costa occidentale dell’isola del Borneo, in quella porzione che è bagnata dalle acque del grande golfo di Sarawak.



Quantunque la notte fosse oscurissima, essendo le stelle coperte da un velo di vapori che la brezza di ponente spingeva verso la costa, la scialuppa s’avanzava senza mai esitare, scivolando fra le scogliere corallifere che aprivano vagamente a babordo ed a tribordo e contro cui rompevasi la risacca con dei muggiti prolungati.



Si dirigeva verso un piccolo punto luminoso che si scorgeva in fondo alla rada e che ora s’alzava ed ora s’abbassava, come se subisse delle scosse improvvise.



Si era già molto inoltrata entro quel profondo squarcio della costa, quando l’uomo bianco che stava seduto presso Yanez, un bel giovane di venticinque o vent’otto anni, di forme massicce, con una barbetta tagliata all’americana e che indossava la divisa di luogotenente, chiese:



– Capitano Yanez, se ci interrogano, che cosa diremo?



– Che andiamo a portare viveri al fortino di Macrae, – rispose il portoghese, che aveva accesa una seconda sigaretta. – Forse che la nostra scialuppa non è carica d’ogni ben di Dio?



– E appena saremo bordo contro bordo daremo addosso?



– Sì, signor Horward. Noi pirati non esitiamo mai e andiamo sempre a fondo. Se sarà una scialuppa a vapore, v’incaricherete voi di metterla subito sotto pressione, così ci rimorchierete subito al largo dopo fatto il colpo.



– Avete fiducia che riesca?



– Piena, completa, signor Horward. Fra due ore Tremal-Naik e Darma saranno a bordo del Re del Mare, ve lo dico io.



– Siete ammirabili voi altri, signor Yanez.



– Siamo abituati a correre tutti i rischi, – rispose il portoghese. – D’altronde anche voi americani avete nelle vene del buon sangue.



– Oh!



Una voce che era partita dal praho o dalla scialuppa, poichè l’oscurità non permetteva ancora di ben distinguere che cosa fosse, aveva gridato:



– Chi vive?…



– Amici che vanno a rifornire di viveri il forte di Macrae, – rispose Yanez.



– Abbiamo l’ordine di proibire lo sbarco a tutti fino all’alba.



– Chi ha dato quest’ordine?



– Il capitano Moreland, che si trova nel fortino in attesa che la sua nave si sia rifornita di carbone.



– Aspetteremo l’alba presso di voi, – rispose Yanez.



Poi, volgendosi verso il macchinista americano ed a Sambigliong che gli stava presso, disse a mezza-voce:



– Non sapevo che vi fosse una nave in queste acque. Il capitano Moreland! Chi sarà costui?



– Qualche inglese ai servigi del rajah di Sarawak, senza dubbio, – rispose l’americano.



– Priveremo la nave del suo capo, – disse Sambigliong. – Lo faremo prigioniero assieme alla guarnigione del fortino.



– Adagio, mio caro, – disse Yanez. – Vi possono essere in quel fortino più uomini di quello che crediamo e noi dobbiamo giuocare d’astuzia. D’altronde nulla sospetteranno, ora che abbiamo fermata la scialuppa che era incaricata di approvvigionarlo.



– Una vera fortuna, signor Yanez, – disse l’americano.



– Non dico il contrario… Là, vedete se mi ero ingannato? È una scialuppa a vapore e non già un praho. Ragazzi, tenetevi pronti.



– Accosta! – gridò in quel momento una voce rauca, – o vi scarico addosso un po’ di mitraglia.



– E assassinereste dei camerati, – rispose Yanez. – Vi avverto intanto che io sono un ufficiale del rajah e non un dayako.



L’uomo che aveva formulata quella minaccia brontolò qualche parola che non giunse fino a Yanez. La scialuppa a vapore era ormai tanto vicina da distinguerla benissimo, essendo illuminata da un grosso fanale di marina appeso sulla cima del fumaiolo.



Era una barcaccia lunga una decina di metri, larga di fianchi, fornita di ponte, con un piccolo pezzo di cannone collocato a prora. Alcuni uomini erano appoggiati alla murata di babordo, vestiti di bianco e sembravano indiani dai turbantini che portavano in testa.



– Gettate una gomena, – disse Yanez, mentre i suoi malesi alzavano i remi e afferravano i parangs tenendoli nascosti sotto i banchi.



Una fune fu gettata dalla barcaccia e venne subito afferrata da Sambigliong che era passato a prora.



– Pronti, – sussurrò Yanez ai suoi uomini. – Quando udrete il mio comando, balzate sopra il bordo.



Con poche bracciate la scialuppa si trovò addosso alla barcaccia. Yanez e l’americano in un momento passarono a bordo della seconda.



– Chi è che comanda qui? – chiese il portoghese, con voce imperiosa.



– Sono io, signore – rispose un indiano che portava sulle maniche i galloni di sergente, salutando. – Perdonate, signor tenente, di avere minacciato di mitragliarvi ma il capitano Moreland ha dato ordini severissimi e non posso permettervi d’approdare.



– Dov’è il capitano?



– Nel fortino.



– E la sua nave?



– Alla foce del Redjang, dinnanzi la bocca settentrionale.



– I prigionieri sono sempre nel fortino?



– Quell’indiano e quella fanciulla?



– Sì, – disse Yanez.



– Ieri vi erano ancora, ma credo che appena la nave del capitano avrà compiuta la sua provvista di carbone, li trasporterà a Sarawak.



– Che cosa si teme?



– Un colpo di mano da parte delle Tigri di Mompracem. Corre voce che si siano messi in mare contro l’Inghilterra e il rajah.



– Baie, – disse Yanez. – Sono tutti fuggiti al settentrione di Borneo. Quanti uomini hai qui?



– Otto, signor tenente.



– Arrenditi!



Prima che il sergente si fosse rimesso dallo stupore, il portoghese con una mossa fulminea l’aveva afferrato colla destra per la gola, mentre colla sinistra gli aveva puntato al petto una delle due pistole che teneva alla cintura.



Vedendo quell’atto, i dodici tigrotti che formavano l’equipaggio della scialuppa, avevano scavalcata rapidamente la murata scagliandosi contro gli altri indiani coi parangs alzati.



– Chi oppone resistenza è uomo morto! – tuonò Yanez.



Il sergente, che doveva essere un uomo di fegato, con una brusca mossa cercò di sottrarsi alla stretta del portoghese e di estrarre la sciabola, mentre gridava ai suoi uomini:



– Prendete le carabine!



L’americano Horward che gli si era posto dietro, fu pronto ad afferrarlo a mezzo corpo ed a farlo ruzzolare sul ponte con uno sgambetto dato a tempo.



Vedendo il loro sergente a cadere e che i pirati stavano per far uso dei parangs, l’equipaggio non osò muoversi.



– Sambigliong, lega il sergente e voi altri disarmate tutti e calateli sotto il ponte bene assicurati.



L’ordine fu subito eseguito senza che gli indiani opponessero resistenza.



– Ora, – continuò il portoghese, sedendosi presso il sergente che era stato legato solidamente alla murata, – se ti preme salvare la pelle, discorriamo un po’. Sarebbe inutile che tu ti ostinassi a tacere, conoscendo noi il modo di far urlare anche i muti. Quanti uomini vi sono nel fortino di Macrae?



– Cinquanta, compreso il capitano ed un tenente del rajah.



– Chi è quel sir Moreland?



– Si dice che prima fosse un tenente della marina anglo-indiana.



– Che cosa è venuto a far qui?



– Non lo so, signore; pare che siasi unito al rajah di Sarawak e che goda anche la protezione del governatore di Labuan. So che comanda una bella nave a vapore, formidabilmente armata.

 



– È un inglese dunque?



– Così si dice, – rispose il sergente, – quantunque sia di carnagione molto bruna.



– Che bandiera batte la sua nave?



– Quella del rajah di Sarawak.



– Quale distanza corre da qui al fortino?



– Appena un miglio.



– Tu avrai salva la vita e dieci sterline di regalo. Signor Horward, voi rimarrete qui con due dei nostri e nel frattempo accenderete la macchina. Ne avremo bisogno fra alcune ore. Gli altri s’imbarchino con me.



Poi, rivolgendosi nuovamente al sergente:



– Si trova su un’altura il fortino, è vero?



– Di fronte a noi, – rispose l’indiano. – È la sola altura che vi sia su questa costa.



– Benissimo: voi rimarrete prigionieri fino al nostro ritorno e, se rimarrete tranquilli, vi lasceremo poi liberi. Signor Horward buona notte e buona guardia.



– Buona fortuna, capitano Yanez, – rispose l’americano.



Il portoghese ridiscese nella scialuppa con Sambigliong e nove uomini, lasciandone due all’americano e diede il segnale della partenza.



L’imbarcazione si staccò dalla barcaccia e filò verso la spiaggia che si trovava a tre o quattrocento passi e contro cui rompevasi, con cupo fragore, la risacca, risalendo per un buon tratto la spiaggia.



Gli undici uomini sbarcarono senza alcun inconveniente, tirarono in secco la scialuppa, poi deposero i parangs, armandosi invece delle carabine e caricandosi di ampie ceste che parevano piuttosto pesanti.



– Siete pronti? – chiese Yanez.



– Sì, capitano, – risposero tutti.



– Lasciate parlare me solo e tenetevi pronti a tutto.



– Saremo muti.



– Avanti, miei prodi. Le tigri di Mompracem non temono i mammalucchi del rajah di Sarawak.



Essendosi in quel frattempo diradato un po’ il velo nebbioso che nascondeva le stelle, Yanez aveva subito scorta l’altura su cui trovavasi il fortino, essendo il paese circostante tutto piano. Il drappello si mise in marcia nel più profondo silenzio. Yanez rischiarava la via con una grossa lanterna, che aveva tolta dalla scialuppa e che dovevasi scorgere a una grande distanza fra l’oscurità della notte.



Scoperto al di là delle dune una specie di sentiero che serpeggiava fra delle piantagioni d’indaco e che pareva si dirigesse verso l’altura, gli undici uomini vi s’inoltrarono camminando in fila indiana.



Non avevano scelto male la direzione, perchè venti minuti dopo si trovavano alla base della minuscola collina, alta appena duecento metri, sulla cui cima scorgevasi confusamente una specie di torricella con intorno delle case e delle cinte.



– Se non dormono o non sono ciechi devono aver scorta la mia lampada, – disse Yanez. – Mio caro signor Moreland, vedrai come ti giuocheranno le tigri di Mompracem! Poi Sandokan si occuperà della tua nave, giacchè ne hai una.



Un sentieruzzo che s’innalzava a zig-zag conduceva al fortino.



Yanez, dopo d’aver accordato ai suoi uomini un momento di riposo, essendo quelle ampie ceste assai pesanti, cominciò a salire, tenendo la sciabola sguainata.



Il drappello era giunto già a metà costa, quando da uno spalto del fortino si udì una voce a gridare:



– Chi va là?



– Il tenente Farshon con cipai di Sarawak che portano viveri pel fortino e ordini pel capitano Moreland.



– Attendete.



Si udirono delle voci, poi si videro parecchi lumi brillare sulle palizzate e finalmente tre uomini che parevano dayaki, quantunque indossassero il costume indiano e armati di carabine, mossero incontro al drappello. Uno di essi portava una torcia.



– Da dove venite, signor tenente? – chiese uno dei tre.



– Da Kohong, – rispose Yanez. – È ancora sveglio il capitano Moreland?



– Ha finito or ora di cenare assieme ai prigionieri.



– Si mangia molto tardi a Macrae.



– Il capitano è tornato dopo il tramonto, questa sera.



– Conducetemi subito da lui; ho delle gravi notizie da comunicargli.



– Seguitemi, signor tenente.



Yanez gli si mise dietro, mormorando fra i denti:



– Ecco una cosa che non avevo prevista. Se Tremal-Naik o Darma, vedendomi comparire improvvisamente, mandassero un grido di sorpresa? Mio caro Yanez sta’ in guardia. La carta che stai giuocando è terribile.



Il drappello varcò un ponte levatoio, attraversò due cinte e un vasto cortile e giunse dinanzi ad un fabbricato piuttosto vasto, costruito in muratura e sormontato da una torricella. Dalle finestre del pianterreno uscivano due sprazzi di luce, essendo le imposte ancora aperte.



– Venite, tenente: il capitano è là, – disse uno dei tre dayaki. – Devo dare ricovero ai vostri uomini?



– No, per ora: lasciateli qui nel cortile.



Ringuainò la sciabola, si assicurò le pistole dentro la fascia, scambiò con Sambigliong un rapido cenno e affettando una grande calma entrò in una saletta illuminata da una lanterna cinese, di carta oliata, dove dinanzi ad una tavola riccamente imbandita si trovavano tre persone: un capitano di marina, Tremal-Naik e Darma.



2. Un audace colpo di mano

Vedendo entrare Yanez, in quel costume a cui non erano abituati, Tremal-Naik e la fanciulla si erano alzati di scatto colla bocca aperta pronti a mandare quel grido di sorpresa, naturale del resto, che l’audace portoghese tanto temeva. Uno sguardo fulmineo di lui lo arrestò a tempo sulle loro labbra.



Fortunatamente il capitano Moreland, che volgeva le spalle alla porta e che nell’alzarsi si era imbrogliata la correggia della sciabola nella spalliera della sedia, non aveva potuto sorprendere quello sguardo imperioso.



Fece mezzo giro su se stesso e squadrò il portoghese che aveva portata la destra sulla visiera dell’elmetto di sughero coperto di flanella bianca, salutando militarmente.



Il capitano era un bel giovane, di forse venticinque anni, di statura piuttosto alta e slanciata, con due occhi nerissimi, che parevano avessero dentro il fuoco, una barbetta nera che gli dava un aspetto fiero e, come aveva detto il sergente della barcaccia, aveva la pelle assai abbronzata. Si sarebbe detto che aveva nelle vene più sangue indiano o malese che europeo, malgrado la purezza dei suoi lineamenti che erano più caucasei che indù.



– Da dove venite, signor tenente? – gli chiese in purissima lingua inglese, dopo che lo ebbe ben guardato.



– Vengo da Kohong a portarvi dei viveri da parte di quel governatore. Non ne aspettavate, capitano?



– Sì, avevo fatto chiedere delle provviste che qui non si possono trovare.



– Delle bottiglie e dei prodotti europei?



– È vero, – rispose il capitano, – ma non era necessario che per inviarmi ciò mi mandasse anche un ufficiale. Bastavano alcuni soldati.



– Non si fidava a comunicare loro le notizie che io sono incaricato di darvi a voce.



– Delle notizie?



– E gravi, sir Moreland.



– Siete il comandante della guarnigione di Kohong, voi?



– Sì, capitano.



– Non siete inglese, voi.



– No, uno spagnolo da parecchi anni ai servigi del rajah di Sarawak.



– Che cosa avete da dirmi?



Yanez accennò Tremal-Naik e Darma che stavano immobili, in piedi, guardandolo con crescente stupore, senza però lasciarsi sfuggire un cenno qualsiasi che potesse allarmare il capitano.



– Avete ragione, – disse sir Moreland, sorridendo. – Sono miei prigionieri.



Si volse verso Tremal-Naik e Darma e disse loro con perfetta cortesia:



– Permettete che mi assenti qualche minuto.



– Toh! Toh! – mormorò Yanez fra i denti. – Li tratta più da ospiti che come prigionieri. Che cosa vi può essere sotto?



Seguì lo sguardo del capitano e lo vide fissarsi replicatamente sulla fanciulla, la quale abbassò gli occhi, mentre un leggero rossore le coloriva le gote.



– Ah! Diavolo! – pensò il portoghese, corrugando lievemente la fronte. – Il sangue anglo-indiano s’intende forse? La sarebbe curiosa!



Il capitano aveva aperta una porta laterale e introdusse Yanez in un elegante gabinetto ammobiliato all’indiana, con ricchi tappeti, mobili leggeri, divanetti di stoffa orientale trapuntati in oro e con grandi vasi di bronzo a rilievi, collocati negli angoli.



Una lampada a globo un po’ opaca ed azzurrognola, spandeva una luce un po’ velata sui tappeti facendo scintillare i loro ricami d’argento.



– Nessuno potrà udirci, tenente, – disse il capitano, dopo d’aver chiusa la porta a chiave e d’aver lasciata cadere una pesante tenda di broccato antico.



– Sapete, capitano, che le tigri di Mompracem hanno dichiarato la guerra all’Inghilterra ed al rajah di Sarawak suo protetto? – disse Yanez.



– Ne sono stato informato fino da ieri da un corriere del rajah, – rispose sir Moreland. – Ma quelli sono pazzi!



– Non forse quanto credete, – rispose Yanez. – Ricordatevi che fu Sandokan a rovesciare James Brooke quand’era al colmo della sua potenza e che lo si credeva invincibile.



– Quelli erano altri tempi, tenente. E poi, sfidare l’Inghilterra! Ignorando dunque che la sua potenza navale è temuta perfino dagli stati europei? Quei pazzi faranno qualche crociera in queste acque coi loro prahos, poi si squaglieranno alle prime cannonate.



– Ecco dove v’ingannate, sir Moreland. Non è coi loro velieri che hanno intrapresa la guerra. Ieri è stata veduta una grossa e poderosa nave a vapore, fumare a venti miglia al largo di Kohong e che aveva sul picco la bandiera rossa delle tigri di Mompracem.



Il capitano aveva sussultato.



– Qui di già? – esclamò.



– E pare che si dirigano verso queste coste.



– L’avete incontrata voi?



– No, capitano.



– Che cosa vengono a fare qui? Che sappiano che la mia nave è ancorata alla seconda bocca del Redjang?



– Il governatore di Kohong crede invece che mirino ad assalire il fortino di Macrae per liberare i due prigionieri ed è perciò che mi ha mandato qui ad avvertirvi di inviarli subito da lui. Io ho l’incarico di condurli colla barcaccia a vapore che staziona nella rada.



– Sono più sicuri a bordo della mia nave.



– Li esporreste al rischio d’una grave battaglia ed essendo molto problematica la vostra vittoria, il governatore preferirebbe che glieli mandaste. Pare che tale desiderio lo abbia manifestato anche il rajah a quanto ho potuto capire. Ci tiene ad avere in ostaggio quelle due persone per frenare Sandokan nelle sue audacie e impedirgli di ritentare l’insurrezione dei dayaki dell’interno, che sono stati poi alleati ai tempi di James Brooke.



Sir Moreland era rimasto silenzioso, come se fosse in preda ad una viva preoccupazione; poi, dopo qualche istante di silenzio, disse con tono singolare che non sfuggì al portoghese:



– Anch’io ci tengo dacchè Tremal-Naik e Darma rimangano prigionieri.



Si passò con un moto nervoso una mano sulla fronte e mandò un sospiro.



– Fatalità del destino, – disse poi, come parlando fra sè.



Yanez lo osservava attentamente, pensando:



– Che diavolo… che quell’anglo-indiano sia stato ferito dagli occhi di Darma? Vivaddio è un bel giovane, pieno di fuoco e di slancio e mi sembra leale. Se provassi a grattargli dolcemente la gola?



– Capitano, – disse, – che cosa decidete dunque?



– Il governatore di Kohong può aver ragione, – rispose sir Moreland, dopo un altro breve silenzio. – I prigionieri potrebbero essermi d’imbarazzo a bordo della mia nave e poi non si sa mai come finisce una battaglia, specialmente quando vi sono di mezzo quei terribili pirati. Ho fiducia intera nella robustezza del mio vascello e nel valore dei miei uomini, scelti con cura e anche nella potenza dei miei cannoni che sono dei più moderni; ma non conosco le forze dei nostri avversari e potrei avere la peggio. Voi credete che essi sappiano dove si trova il mio Sambas?



– È il nome della vostra nave?



– Sì, – rispose il capitano.



– A Kohong si crede che la Tigre della Malesia e Yanez sappiano dove si trova ancorata e non si dubita che da un momento all’altro vi assalgano.



– Allora affiderò a voi i due prigionieri; ma risponderete della loro salvezza?



– Io seguirò la costa passando dietro le scogliere. L’acqua non è abbondante in quei canali interni e la nave dei pirati della Malesia non potrebbe seguirmi. Io rispondo pienamente di loro, capitano.



– È meglio che approfittiate delle tenebre.



– È quello che volevo proporvi, sir Moreland, – disse Yanez, che frenava a grande stento la gioia interna.



– Quanti uomini avete?



– Dieci qui e due nella rada.



– Vi servirete della barcaccia a vapore, così all’alba potrete giungere a Kohong.



– E voi, capitano?



– Io uscirò in mare ed andrò a cercare la Tigre della Malesia. Anelo di misurarmi con quell’uomo.

 



– Lo odiate?



– È un pirata che è tempo di domare, – si limitò a rispondere il capitano. – Seguitemi.



Riaprì la porta e rientrò nel salotto dove si trovavano ancora Tremal-Naik e Darma.



– Preparatevi a partire, – disse, guardando particolarmente la fanciulla.



– Dove volete tradurci, capitano? – chiese Tremal-Naik.



– Ho ricevuto l’ordine di farvi condurre a Kohong.



– Qualcuno minaccia il fortino?



– Non posso rispondere a questa domanda.



Yanez finse di approvare con un gesto.



Sir Moreland fece cenno ai due prigionieri di andarsi ad abbigliare, poi sturò una bottiglia e riempì due bicchieri offrendone uno al portoghese.



– Voi mi assicurate che non vi lascerete catturare, è vero? – chiese l’anglo-indiano, dopo d’aver vuotato il suo.



– Se vedo qualche pericolo mi getterò alla costa, capitano, – rispose Yanez.



– Sono valorosi i vostri uomini?



– Sono i migliori della guarnigione di Kohong. Quando avrò l’onore di rivedervi?



– Salperò all’alba e muoverò subito verso la cittadella, a meno che i pirati della Malesia non mi arrestino. Tuttavia ho fiducia di vincerli.



Yanez sbozzò un sorrisetto ironico.



– Ve l’auguro, capitano, – disse poi. – È ora di finirla con quei fieri e pericolosi scorridori del mare.



Tremal-Naik e Darma erano in quel momento rientrati. Il primo si era coperto il capo d’un immenso turbante e la seconda si era gettata sulle spalle una mantiglia di seta bianca che l’avvolgeva tutta.



– Vi scorterò fino alla spiaggia, – disse il capitano, – quantunque nessun pericolo vi minacci.



Yanez, udendo quelle parole, aggrottò lievemente la fronte.



– Che prenda con sè degli uomini? – mormorò, assai contrariato da quella proposta. – Bah? Li ridurremo a dovere appena saremo in vista del mare.



Uscirono tutti insieme nel cortile, dove si trovavano sempre allineati i dieci pirati, appoggiati alle loro carabine. Vedendo apparire il capitano, presentarono le armi con un insieme che fece stupire lo stesso Yanez.



– Sono uomini solidi, – disse sir Moreland, dopo d’averli osservati uno ad uno. – Andiamo.



Quattro pirati formarono l’avanguardia, dietro si misero Yanez e Tremal-Naik, poi Darma col capitano a qualche distanza, quindi gli altri sei. I primi portavano il fanale e tre torce per illuminare la via, essendosi il cielo coperto di un fitto velo di vapori che intercettava completamente quel vago chiarore che proiettano gli astri, specialmente attraverso la limpida atmosfera delle regioni equatoriali.



Un profondo silenzio regnava nelle pianure sottostanti alla collinetta, rotto solo dal passo leggero del drappello. Anche la risacca pareva che si fosse calmata in causa forse del riflusso.



Yanez taceva, ma scambiava di quando in quando uno sguardo con Tremal-Naik e lo urtava col gomito, come per raccomandargli la massima prudenza. Dietro di lui il capitano diceva qualche parola, sotto-voce, alla fanciulla, che il portoghese non riusciva ad afferrare per quanto aguzzasse l’udito.



I pirati, muti come pesci, col dito sul grilletto delle carabine, li seguivano pronti al primo comando ad avventarsi contro il capitano.



Discesa la collinetta, il drappello s’avanzò in mezzo alle piantagioni e, siccome il sentiero era stretto, Yanez ne approfittò per distanziare il capitano.



– Sii pronto a tutto, – sussurrò a Tremal-Naik, quando credette che il capitano non lo potesse più udire.



– E Sandokan? – chiese sotto-voce l’indiano.



– Ci aspetta al largo.



– A quale rischio ti sei esposto, Yanez.



– Bisognava ben tentare un colpo di testa. Senza di voi non saremmo stati liberi di cominciare le ostilità.



– Del capitano che cosa ne farai? Ti chiedo la sua libertà, perchè egli ci ha trattati più come ospiti che come prigionieri.



– Non ho alcuna intenzione di ucciderlo. Sarebbe una vigliaccheria assassinarlo. Chi è quell’uomo?



– Un inglese ai servigi del rajah, e che prima faceva parte della marina indiana.



– Lui, inglese, con quella pelle così abbronzata e quegli occhi! No, io lo credo un anglo-indiano piuttosto.



– Anche a me è venuto il sospetto; comunque sia, si è comportato verso di noi come un vero gentiluomo.



– Zitto: ecco il mare.



S’accostò ai quattro pirati che lo precedevano, fra i quali si trovava Sambigliong e sussurrò loro qualche parola.



– Va bene, – rispose l’antico mastro della Marianna. – Me ne occuperò io.



Pochi minuti dopo giungevano sulla spiaggia del mare, là dove la scialuppa si trovava arenata. A tre o quattro gomene la barcaccia fumava. Il macchinista americano non aveva perduto il suo tempo a quanto pareva.



– Spingete in acqua la scialuppa, – comandò Yanez.



Mentre quattro uomini eseguivano l’ordine, gli altri si erano disposti intorno al gruppo formato da Tremai-Naik, da Darma e dal capitano.



Sambigliong anzi si era messo dietro a quest’ultimo.



Appena Yanez vide la scialuppa a galleggiare, s’accostò a sir Moreland che stava presso Darma e gli stese la mano, dicendogli:



– Fidatevi di me, capitano: io condurrò i prigionieri in salvo.



Nel medesimo tempo strinse la mano dell’anglo-indiano con tale forza da fargli scricchiolare le dita e da paralizzargli il braccio.



Mentre lo teneva, impedendogli in tal modo che sguainasse la sciabola, Sambigliong afferrò a mezzo corpo il capitano e con un colpo solo l’atterrò.



Sir Moreland aveva mandato un grido di furore:



– Ah! Miserabili!



I pirati si erano precipitati su di lui e in meno che lo si dica gli avevano legato le mani dietro al dorso e l’avevano privato della sciabola e delle pistole che portava alla cintura.



Appena potè rimettersi in piedi, avendogli lasciate le gambe libere, fece atto di scagliarsi su Yanez che lo guardava, sorridendo silenziosamente.



– Che cosa significa questa aggressione? – gridò, pallido d’ira. – Chi siete voi?



Yanez si levò l’elmetto e salutandolo ironicamente, gli rispose:



– Ho l’onore di presentarvi i saluti del mio amico, la Tigre della Malesia.



– Chi siete voi?



– Yanez de Gomera, sir Moreland.



La sorpresa fu tale, che il giovane capitano fu per qualche istante incapace di pronunciare una parola.



– Yanez, – disse finalmente, guardandolo quasi con terrore. – Voi il compagno della Tigre della Malesia!



– Ho quest’onore, – rispose il portoghese.



Il capitano girò lo sguardo verso Darma. La fanciulla non aveva mandato un grido, nè aveva fatto un gesto durante quell’improvviso attacco. Era rimasta immobile e silenziosa, a cinque passi dall’anglo-indiano, quantunque il suo pallore tradisse una certa angoscia.



– Uccidetemi dunque, se l’osate, – disse rivolgendosi a Yanez.



– Ci chiamano pirati, ma sappiamo essere generosi forse più degli altri, – rispose il portoghese. – Se io fossi caduto nelle mani del rajah, a quest’ora mi avrebbe fatto fucilare; io, signore, vi dono invece la vita.



– Che io avrei chiesto, – disse Tremal-Naik.



– E che io non ti avrei rifiutata, – aggiunse Yanez.



– Che cosa volete fare di me, dunque? – chiese il capitano coi denti stretti.



– Lasciarvi libero di tornarvene a Macrae, signore.



– Potreste pentirvi d’una simile generosità, perchè domani vi darò la caccia colla mia nave.



– E troverete sul vostro cammino un avversario degno di voi, – rispose Yanez. – Se volete attendere l’equipaggio della barcaccia, fra pochi minuti sarà qui.



– Si sono arresi quei miserabili?



– Li abbiamo sorpresi e non potevano misurarsi con noi. Capitano, buona notte e buona fortuna.



– Ci rivedremo più presto di quello che credete.



– Vi aspettiamo, sir Moreland. Su, imbarcate!



Tremal-Naik prese per mano Darma, che non aveva mai aperto bocca e la trasse dolcemente verso la scialuppa facendola sedere a poppa, poi s’imbarcarono tutti gli altri, mentre il capitano passeggiava nervosamente sulla spiaggia, cercando di spezzare le corde che gli legavano